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Contro la famiglia patriarcale
Maria Messina fu una grande scrittrice di cui, dopo la morte avvenuta nel 1944, si perse il ricordo. La memoria letteraria è stata molto avara nei suoi confronti, solo dopo la ristampa di alcune sue opere nel 1980 e l’attenzione di Leonardo Sciascia – che la paragonò a una “Mansfield siciliana”, si aprì uno squarcio sul silenzio che la circondava.
In questo romanzo la scrittrice mette in risalto una donna sottomessa alla famiglia patriarcale siciliana, a cui è negata ogni autonomia e da cui ci si attende solo fedeltà ed obbedienza cieca. Questa sua denuncia la troviamo in tutti i suoi romanzi, la donna come “pupattola di cencio” che non ha voce per gridare i diritti negati di libertà ma che si salva estraniandosi da sè e dalla propria quotidianità.
Leggere le sue pagine significa ritrovarsi all’interno di povere e misere case, nei vicoli dove le donne si radunavano a cucire, nei balconcini dove sbocciavano margherite, gerani e giunchiglie, e ancora panorami di frumento, poggi e colline ondulate. E poi ci si immerge nelle trame delle vite di nonne sagge, di padri despoti e duri, di madri silenziose, di sorelle, cugine, amiche accomunate da destini scelti da altri. Si entra, quasi in punta di piedi, nelle cucine con i grandi focolari e il profumo del pane o dei dolci appena sfornati, nelle stanze da letto con piccole culle che ondeggiano, in piccoli viottoli freschi ed ombrosi punteggiati da edicole votive in onore di santi e madonne.
Inserita inizialmente nel filone narrativo seguito da Verga, Capuana e Pirandello, in seguito la sua arte narrativa assume un’identità autonoma, con un verismo in cui gli avvenimenti impattano soprattutto l’animo femminile.
Pubblicato da: KKIEN Publ. Int.
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